Capri espiatori

Sempre più in certi ambienti si demonizzano sostanze usate anche in agricoltura biologica, seppur con forti limitazioni:
Il rame e l’anidride solforosa.
Il rame si usa da secoli contro la peronospora della vite nei vigneti, mentre la solforosa si usa per proteggere da ossidazioni e cattive fermentazioni in cantina. Premettendo che secondo il mio parere la verità sta sempre un po nel mezzo tra le opinioni estreme, qui di seguito le mie considerazioni.

Questione rame. Quando ero ragazzo era proprio la poltiglia bordolese il prodotto più usato, miscela tra solfato di rame e calce i cui cristalli di solfato di rame si trovano facilmente nelle cave, come del resto la calce. Dalla fine degli anni ’60 le industrie chimiche, come Sandoz, sono riuscite a sostituire la poltiglia bordolese che agisce per contatto, con prodotti di sintesi citotropici come il Mancozeb e subito dopo con i sistemici (prodotti chimici che entrano nel circolo linfatico come il Cymoxanil). E’ indubbio che le dosi di rame nel passato erano alte e dunque pericolose per l’ambiente, ma oggi con la finezza dei nuovi formulati e con le macchine operatrici più efficienti se ne usa normalmente dosi infinitamente minori. Nel Bio max 5 Kg./Ha/anno. Dunque, se si calcola il peso di solo il primo cm di terreno di un Ha, significa max 5Kg su 200.000 Kg. che rende bene l’idea di ciò che intendo dire. Inoltre non è banale ricordare che il rame è inserito in tutti gli integratori alimentari, che dimostra come in piccole dosi il rame è addirittura necessario per il buon funzionamento del metabolismo umano. Lungi da me affermare che le sostanze di sintesi alternativi al rame non siano leciti, anche se tra me e me qualche perplessità ce l’ho sulla salubrità di queste sostanze, ma sentire che qualcuno si sta vantando di aver abolito il rame senza aggiungere cosa lo sostituisce, mi fa pensare alla malafede.


Passiamo alla solforosa. E’ noto che nel vino è l’acidità la componente più attiva contro le ossidazioni e la resistenza contro i batteri cattivi: l’acidità agisce poi come moltiplicatore dell’azione della solforosa presente nel vino sia di quella naturalmente prodotta dalla fermentazione che di quella aggiunta. Dunque, sopratutto nei vini di buona acidità, non serve aggiungere molta solforosa per raggiungere quei 18 mg/l di libera normalmente necessari all’imbottigliamento. Ma allora cos’è quel mal di testa che dopo una mezza bottiglia e oltre sistematicamente viene attributo alla presenza di solforosa? Certamente alcuni vini vengono addizionati di quantità notevoli di solforosa che può provocare inconvenienti, ma non è solo quello. E’ infatti, a mio avviso, una complessità di fattori che, insieme, provocano il malessere. Può essere infatti causato semplicemente dall’alcool, molecola tossica, o i tannini aggiunti, o le mannoproteine, o le resine filtranti, o i numerosi additivi per gli aromi, il corpo, la gomma arabica, insomma miriadi di sostanza che tutte insieme provocano il mal di testa. Perché far ricadere solo e sistematicamente sulla solforosa la causa? Probabilmente perché è più semplice una comunicazione superficiale piuttosto di una approfondita.


Evvabbè, questo è quel che penso.

Considerazioni bio

Al ritorno dell’evento BioPride a Gaiole in Chianti, dove 52 aziende si sono proposte con i loro vini il 21 e 22 Giugno, alcune riflessioni le devo esternare.

I vini Bio, almeno tra tutte le aziende partecipanti all’evento, sono tutti buoni, è difficile individuare difetti o qualità scadenti come occasionalmente avveniva nel passato. Questo provocherà certamente un’evoluzione per un mercato che solitamente è sempre stato di nicchia.

Emerge inoltre la consapevolezza del concetto che ci conduce al “distretto territoriale bio-” che rappresenta la novità vera di questo mondo. Il mondo bio si è spesso contraddistinto per le polemiche, selvagge competizioni e credi diversi che hanno reso l’idea di frammentazione e di poca credibilità.

I bio distretti invece, dove le aziende possono superare insieme le regole più o meno rispettate delle certificazioni, possono essere l’evoluzione, il futuro: la condivisione, la solidarietà e l’appartenenza di un unico territorio che si sforza di produrre pulito, in un modello competitivo in cui il vicino non rappresenta più un nemico ma un’occasione per migliorare la metodologia, potrebbe abolire e rendere inutile l’ormai quasi obsoleta la parola Bio. Occorre infatti riconoscere che la legislazione non potrà mai definire la metodologia, per taluni troppo restrittivo e per altri troppo permissivo, mentre invece i territori sicuramente si. I benefici sarebbero oltre che dal punto di vista ambientale, anche dal punto di vista del mercato che individuerebbe non più la singola isolata azienda bio, ma interi territori.

Il contrasto del Vinitaly con i vini naturali

Si parla di cambiare il mondo, si parla del bio e del bio dinamico come sistema pulito e come stimolo a cambiamenti virtuosi per l’ambiente e l’economia verde. 
E allora mi domando come il potente Vinitaly possa essere tramite di questi concetti, con Il suo Vivit (vigne vignaioli terroir), ma sopratutto chi con la partecipazione avvalla un sistema che si basa solo sul profitto, lecito per carità, ma sopratutto un sistema contrario  a tutte le logiche del naturale: il traffico, i parcheggi, la grandezza abnorme della fiera dove migliaia di aziende si affollano per cercare di emergere dal magma, dove regna il valore dell’apparire, la poca sostanza, dove si ostenta giacca e cravatta e ragazze più o meno provocanti esibite a volte come statuine, insomma un’immagine che rappresenta in pieno gli ultimi venti anni dell’Italia. Vivit, un mondo a parte qualcuno potrebbe dire, ma per me un recinto che fa guadagnare chi vive di discorsi. Chi predica km 0, chi predica la naturalità o qualsiasi altro termine simile, siamo sicuri che  la fiera di Verona sia il luogo adatto per questi argomenti? Non sarebbe meglio per diffondere i concetti di naturalità scegliere i luoghi dove si lavora, in vigna e in cantina, o eventi locali, di Paese, o manifestazioni più piccole, rassicuranti, meno inquietanti? 
Non vorrei che qualcuno si offendesse per questo post, spero solo che si apra un dibattito pacifico.

 

Utilità della Stazione Meteo in viticoltura

Sono un pò orgoglioso di presentare la mia nuova Stazione Meteo digitale. Ammetto di essere un po’ pazzo, in quanto di questi tempi potrebbe essere meglio star fermi, ma la mia vecchia Stazione Meteo computerizzata, installata una quindicina di anni fà, non funzionava più bene o per lo meno cominciava ad essere obsoleta. Ho quindi deciso di acquistarne una nuova, la quale si sintonizza col mio computer telefonandogli. Qualsiasi persona che conosce il numero di telefono della centralina e possiede il software, può scaricare i dati di Caparsa che registra: temperatura, umidità relativa, bagnatura fogliare e pioggia. Questi dati sono utili per intervenire con i trattamenti in vigna con una certa precisione, indispensabile sopratutto per il bio e per il risparmio del denaro. Funziona un pò come quando si va dal medico e ci ordina delle analisi, che noi poi gli portiamo, li legge spesso moooolto velocemente e conferma, oppure no, quello che già pensava di sapere.

Ecco sì, i vignaioli a volte diventano come medici…

Comunque, per curiosità la temperatura più alta registrata a Caparsa nell’ultimo mese e mezzo è di 39,4° C il 01/07/2012 alle ore 16. Di seguito il grafico; come si può notare l’escursione termica tra notte e giorno è davvero notevole. Un buon augurio per una produzione 2012 di eccellenza!

 

I metodi di conduzione

Pensando a tutto quel che è uscito nel precedente post, può essere utile ai vignaioli ma anche interessante ai “winelovers”, descrivere alcune metodologie di conduzione bio- (quando scrivo bio- significa biologico e biodinamico: io non faccio distinzioni) che i vignaioli praticano da più o meno tempo.

Per quanto mi riguarda, inizio il primo trattamento solo dopo il verificarsi del triplo 10 (10 mm di pioggia, 10 c° di minima giornaliera, 10 cm di tralcio). Poi intervengo sempre dopo le infezioni secondarie che, secondo le condizioni, varia da poche ore quando le temperature sono elevate, a diversi giorni quando le temperature sono basse. Questo aspetto pare sia controverso, poichè ultimamente sento che le applicazioni di rame vengono eseguite preventivamente. Personalmente amo il Solfato di Rame (Poltiglia bordolerse) ma negli ultimi anni sto usando anche il rame metallo. Ho provato prodotti a base di equiseto e argilla (Mycosyn, che Antoine usa regolarmente), ma l’ho abbandonato in quanto generalmente non supero i 4 kg di Rame per ettaro annuo (Il limite è 6 kg se non sbaglio). Inutile dire che la conduzione agronomica è fondamentale per la riduzione di qualsiasi prodotto antiparassitario: l’energia bassa è requisito indispensabile per una miglior conduzione bio-. L’anno scorso, non mi vergogno a dirlo, ho avuto però serissimi problemi (perdita del 75% di produzione). Quest’anno sento parlar bene dei fosfiti di potassio… ma ancora commercialmente non sono molto presenti. Io mi servo dal Consorzio Agrario, che ancora non ha nella linea questi prodotti, poichè, secondo le loro argomentzioni, non sono ancora una “sicurezza”.

Questioni di certificazione

C’è un aspetto del mondo-vino sul bio-: molti produttori non sono certificati. Anche io sono stato molti anni senza certificazione, ma poi nel 2003 mi sono convertito accettando il controllo. Sostenevo che chi è bio- veramente non ha necessità di ulteriore burocrazia, che produrre bio doveva essere un qualcosa che viene da dentro e non imposto da motivi commerciali e quindi non dovevano servire certificazioni. Ottime riflessioni. Sono addiritturo finito nel 1997 a tutta pagina sul settimanale “Venerdì di Repubblica” , come uno dei pochi bio- in Chianti…

Poi mi sono accorto che chi molto seriamente è bio controllato e pagante una somma per questo, cominciava a guardarmi storto; allora qualche dubbio mi è venuto, domandandomi perchè mi guardasse storto. Sono arrivato alla conclusione che a parte gli utili contributi economici per chi si certifica, ho ritenuto che non si può continuare all’infinito a sostenere ai quattro venti di essere bio- senza una prova tangibile per il consumatore (anche se si può discutere del metodo: noi dobbiamo pagare il controllore…), ma sopratutto per motivi di correttezza nei confronti di chi si sottopone al controllo.

La questione non è di semplice soluzione, e il dibattito è aperto. Amici produttori che innegabilmente praticano il bio- mi chiedono un parere e io rispondo così, semplicemente: non si può raccontare all’infinito di essere bio- senza certificazione, arriva un momento però in cui bisogna farlo.