GGGiovani

I gggiovani, come scrive questa parola Raffaella Guidi Federzoni (ex Nelle Nuvole), sono coloro che ci meravigliano: parlano spesso un linguaggio incomprensibile per noi vecchi, sono nativi digitali, ormai studiano e comunicano sugli smartphone e non più sui libri, hanno abbandonato addirittura i computer tradizionali come noi li conosciamo, considerano la società vecchia come vecchi noi siamo in effetti.
Però dolenti o nolenti saranno coloro che guideranno l’Italia e il mondo, io ne ho cinque in famiglia e qualcosa ne so.
Per i gggiovani il vino non è più il prodotto alimentare dei nostri nonni. Con l’abbondanza di cibo a disposizione è diventato più un prodotto estetico, ci si avvicina molto alla moda, l’importanza del brand, della marca, è importante.
Il vino buono, il più possibile ottenuto senza prodotti chimici, può anche rappresentare un ancora di salvezza e consapevolezza per i giovani che vivono in una epoca con fiumi di coca e alcool scadente. Insegnare loro che l’alcool crea danni, che nel vino sì c’è l’alcool ma se saputo gestire alimentarmente può essere utile, piacevole, senza troppi rischi di alcolismo, deve essere il messaggio da valorizzare. Non a caso nella dieta mediterranea, patrimonio culturale immateriale dell’umanità dell’Unesco, rientra anche il vino.
Quando gli studenti americani visitano Caparsa, il messaggio che cerco di trasmettere é: il vino non è solo un mezzo per andar fuori di testa ma può essere un prodotto molto salubre, allegro e godereccio a differenza delle tantissime sostanze pericolose troppo abusate in circolazione.

Essere fuori norma, in agricoltura.

 Lo spunto di questo post mi è venuto quando qualche giorno fa una mia cara amica che produce vini blasonatissimi di un’azienda vicino a Caparsa mi ha riferito di aver ricevuto la “visita” di due signori, vestiti normalmente, ispettori della sicurezza sul lavoro. Costretta ad assumere due consulenti per cercare di tamponare, è consapevole di andare incontro a una multa per qualsiasi motivo, solo per finanziare la struttura di controllo.

Soprattutto in questo periodo d’intenso lavoro in vigna per un piccolo produttore come me, queste “visite” scatenano sentimenti e riflessioni che possono sconfinare in rabbia. Per quanto mi riguarda io faccio il possibile, ho solo due tre dipendenti avventizi, cerco di fare il meglio possibile, ma sono consapevole di essere fuori norma. Naturalmente parlo di fuori norma secondo le leggi, delle tante che si affollano e s’intrecciano in modo tale di essere sempre fuori norma. Essere fuori norma, dunque, è una regola per chi produce. Sicuramente la maggior parte delle regole s’ispirano a sani principi, ma la problematica che succede è a mio parere questa: come è possibile produrre in modo concorrenziale e globalizzato quando una spada di Damocle, la burocrazia, si aggira sempre sopra la testa di ogni imprenditore, soprattutto piccolo imprenditore?

Esempio: è da 45 anni che vado in vigna e negli ultimi anni penso che posso anche insegnare qualcosa. Allora perché se assumo un operaio dovrebbe frequentare un corso per “saper stralciare” o “legare le viti”, non basto io a farlo? Perché devo pagare qualcuno che forse, senza presunzione ovviamente, ha molta meno esperienza di me? La risposta è semplice: è una questione di soldi, non di sostanza. Questo è solo un piccolo esempio, ma potrei portarne numerosi altri. Parliamo di trattori. Ho tre trattori tutti a norma, tutti con la cintura di sicurezza e rollbar o cabina, io vado sui trattori da 45 anni. Non mi sogno lontanamente d’insegnare o assumere qualcuno per fare, anche in parte, il mio lavoro. Corsi, patentini e 6 ore massime di lavoro al giorno, mi fanno venire il mal di stomaco, tanto vale non assumere nessuno e se mi ammalo io, vada tutto al diavolo.

Il nodo centrale per molti coltivatori è dunque questo: chi me lo fa fare. E allora i giovani non si assumono, si cerca di resistere e i più lungimiranti delocalizzano all’estero.

Anch’io, in segreto, ho una mezza idea di andare in Perù e lasciare tutto qui, che ci si adatti con gli istruttori dei corsi, se qualcuno vuol continuare l’attività. Dirò di più: se qualcuno mi fa girare i cabasisi e mi trova stanco dopo 10/12 ore di lavoro magari sul trattore, io potrei anche perdere la testa abbandonandomi in azioni incontrollate e pericolose.

Dunque, il regime sanzionatorio per ogni questione di lavoro è da abolire.

Piuttosto, occorre un’assistenza statale che funzioni come collaborazione ai fini del miglioramento generale delle condizioni del lavoro e dell’impresa. Con collaborazione si possono diminuire i rischi sul lavoro e non solo (come ad esempio l’Haccp), con armonia. Con una metodologia collaborativa, quando arrivano due distinti signori a controllar piccole imprese, non deve venire ansia e malumore, ma deve venire piacere perché significa che non si è soli, che qualcuno ci vuol aiutare, senza vivere la “Spada di Damocle” dei regimi sanzionatori. Allora si assumerebbe, si avrebbe energie sufficienti anche per tentare di espandersi… si creerebbe un circolo virtuoso a tutto vantaggio della collettività: oggi succede tutto il contrario.

C’è chi dice che in fondo si vuol favorire le imprese di manodopera, che assumono operai mal pagati che ruotano continuamente, ma che evitano tutte le responsabilità e la burocrazia. Forse si. Ho un esempio a Panzano, e non solo, dove si sta licenziando manodopera fissa o fissa/avventizia per affidarsi solo a ditte esterne. Se questo è il futuro, presto ne vedremo delle brutte nelle vigne e nei vini. Le vigne e i vini, l’agricoltura, ha bisogno di personale che “conosca”, che lavori non solo per l’ora di lavoro, con i quali si stabilizzi una continuità e passione lavorativa, altrimenti… addio Italia.