Riflessione, prima di Slow Wine Fair

da oltre quarant’anni sento dire che il mondo del vino è in trasformazione e che occorre cambiare le tattiche di vendita, occorre svoltare e affidarsi a quello o quell’altro esperto in materia.

Per quanto mi riguarda, sono stato tra i primi a investire in comunicazione telematica e accoglienza (I Wine Experience a pagamento vanno forte!), e devo dire che i risultati positivi sono abbastanza evidenti. E’ chiaro che i prezzi dei vini sono conseguenza dei costi di produzione, dei costi degli investimenti, dei costi di gestione, e dei costi di marketing (fiere ed eventi nazionali e internazionali, concorsi sempre più pressanti, costosi e numerosi malauguratamente…. ).

Forse però qualcuno si dimentica che il vino è frutto dell’agricoltura nei territori e che la “qualità” si fa in vigna, lavorando sodo anche in situazioni estreme, mentre una folla di opinionisti e operatori di marketing si affannano a ritagliarsi un’attività remunerativa. Queste persone cominciano ad avere troppa rilevanza e assorbono troppe risorse, oltre a creare una certa confusione a causa delle markette. Forse qualcuno non capisce che è più importante investire in manodopera e il loro benessere, sul ricambio generazionale, sul territorio e su tutta la linea di produzione, piuttosto che nel marketing generalista. A mio parere, i profitti migliori  avvengono quando si organizzano eventi mirati, pratici, reali, con gli operatori, con i turisti, con chi deve convincere a comprare e non (troppo) generalisti dove ci sono sempre le solite facce e i soliti ubriaconi, che non portano a casa  nulla o poco di reale.

In Italia abbiamo 50.00 produttori di vino e quasi 1000 vitigni, significa che ogni pezzo d’Italia ha quei vini li, con quei cibi lì, con quelle persone lì, con quelle storie lì, con quei paesaggi lì, e questa è una risorsa e un valore aggiunto infinito. Non vorrei che passasse l’idea che le aziende sono troppo piccole per affrontare la globalizzazione e che non sono competitive. La realtà invece è che il merito delle piccole realtà è la grande flessibilità, la grande diversificazione, la grande valorizzazione dei territori che sono unici in Italia. La vitivinicoltura è l’ultima agricoltura non completamente in mano all’agroindustria, e questo deve rimanere così, altrimenti la concorrenza globale schiaccerà le produzioni di nicchia che fanno grande l’Italia in questo settore.

Probabilmente il racconto sul vino deve cambiare, sottolineando come il vino può essere un alimento che favorisce felicità e salubrità, poiché oltre alla molecola alcool ci sono tantissime molecole che influenzano la mente e il corpo (sì in quantità omeopatica, ma reali ed esistenti a differenza di tutte le altre bevande alcooliche) e che il vino è e deve rappresentare lo specchio dei territori. Dunque se all’origine abbiamo un’agricoltura non intensiva, biologica e culturalmente legata ai territori, se proponiamo il buono, pulito e giusto (alla Slow Food), la crisi non ci sarà o sarà solo per chi opera senza amore.

La sostenibilità

Sostenibilità è una parola di gran moda e usata spesso: ma che vuol dire sostenibilità? Sicuramente l’impegno per basse emissioni di Co2, di inquinanti e rifiuti, l’uso rispettoso del suolo e delle acque, la tutela della biodiversità: questi sono gli aspetti più citati per le produzioni sostenibili. L’aspetto più interessante che dovrebbe racchiudere la parola sostenibilità è però a mio avviso il miglioramento della felicità e del benessere delle persone, in particolare dei lavoranti e quindi per una Società più giusta e… sostenibile.
Nella realtà di tutti i giorni i metodi produttivi dei singoli risentano fortemente delle politiche degli Stati nel mondo globalizzato, e tra guerre, armamenti e visioni lobbistiche qualsiasi intervento individuale risulta vanificato nel mare delle ipocrisie. Anche le azioni che mirano alla felicità delle persone, dei lavoranti, semplicemente sono poco prese in considerazione, in quanto la competizione e le differenze sociali sono sempre più insopportabili spinte da un liberismo spietato e dalla paura che è alla base del controllo sociale.
La narrazione di sostenibilità nel campo vitivinicolo (e non solo) raramente cita l’argomento del benessere dei lavoranti. Nella realtà, per esempio, i produttori negli ultimi anni preferiscono affidarsi alle squadre di operai, sollevandosi dal problema di sicurezza sul lavoro, dal giusto compenso, la soddisfazione e la felicità. Le antiche figure professionali con lunga durata del rapporto di lavoro, la loro fedeltà e dunque il riconoscimento di ogni angolo di vigna e azienda, con la soddisfazione e la condivisione anche dei successi lavorativi sembrano diminuire in generale a favore di figure più mercenarie, più mercantili, più saltuarie e dunque meno soddisfacenti.
La sostenibilità dovrebbe comprendere un salto di qualità anche dal punto di vista del benessere dei lavoratori se si vuol raggiungere l’obiettivo di proteggere la nostra casa, il Pianeta Terra.

Il mondo del vino autoreferenziale

Il vino è ormai diventato un prodotto di moda, come la moda. Nato semplicemente come alimento e gioia del vivere, oggi rappresenta spesso uno Status, un modo di esssere.


Il marchio, il design, il packaging, l’etichetta e lo “Storytelling” sono la base per vendere la bottiglia di vino, molto oltre del vino in sè. In pratica si segue e si investe più nel marketing che non nella vigna, perchè tanto è più importante l’apparire che il contenuto. Inoltre, le produzioni intensive e industriali che nulla hanno a che fare con la qualità e la salubrità, sono i metodi per la maggior parte dei vini prodotti.

Il valore degli operai, dei veri vignaioli, insomma di chi si relazione in qualsiasi condizione estrema con l’essere vivente “vitis-vinifera” è spesso sottovalutato, sottostimato e spesso sottopagato.


Negli eleganti eventi, nelle riviste patinate e nelle fiere, sono tutti in giacca e cravatta, sorriddenti e attraenti, con le scarpe lucide e in cerca di lucro o bevute di lusso tra giudizi e prediche e punteggi, dimenticando l’origine di tutto, di chi deve lavorare sotto i 43 gradi all’ombra, al gelo, al fango o con le viti sempre bagnate (come questa annata 2023).

Annata 2023: illeciti in agguato

Come ormai sembra, questa difficile annata vitivinicola sarà caratterizzata da una sostanziale perdita di produzione.

Mi vengono all’orecchio di acquisti di uva e vino per compensare le perdite. Io spero che riguardi sopratutto i vini a IGT, poichè se riguardassero i vini a Docg sarebbe un disastro. Questo perchè la Docg è in pratica l’unica categoria di vini dove c’è la Garanzia di provenienza delle uve e del vino. Nel Chianti Classico i trasferimenti di vino possono effettuarsi solo dopo l’idoneità di Valoritalia e questo è senz’altro un ottimo strumento per limitare eventuali frodi. Da notare però che fino al 31 dicembre di ogni campagna vendemmiale questa norma non è applicata. Per quanto riguarda i trasferimenti delle uve, non esiste praticamente alcun controllo. Aggiungo che nel Chianti Classico dove opero la strada della zonazione è avviata (Vedi ad esempio l’Atlante del Chianti Classico di Alesandro Masnaghetti) e che questo territorio meriti un prestigio che potrebbe davvero avvicinarlo ai vini più blasonati del Mondo. Purtroppo molti produttori e imbottigliatori sono rimasti a visioni mercantili tipici della Toscana, per cui in annate come questa la tentazione di operazioni poco lecite potrebbero davvero impedire quella trasparenza di produzione che solo i grandi vini e territori possono (probabilmente…) vantare.

Oltrettutto gli osservatori, i giornalisti ed esperti di vino non sono fessi, e un eventuale scandalo tra qualche tempo potrebbe davvero danneggiare il prestigio dei vini a Docg.

Ho letto con piacere che una possibile soluzione potrebbe essere quella di poter aumentare il taglio d’annata 2023 con vini prodotti in annate precedenti. Nel Chianti Classico ad esempio abbiamo attualmente la possibilità del taglio d’annata del 17,5% che se aumentato in quest’occasione al 30% o più, potrebbe essere una soluzione per armonizzare questa difficile situazione.

Pole il vino Chianti Classico competere con il vino della Borgogna?

Pole, pole…

Abbiamo un territorio strepitoso, alcuni vini strepitosi, ma ancora non c’è nella popolazione e tra molti produttori la consapevolezza che potrebbe essere possibile puntare in alto, molto in alto.

Pochi posti al Mondo sono “sicuri” come la Terra del Chianti, pochi posti al Mondo hanno un ambiente così intatto e salubre, purtroppo spesso violentato da colonne di auto d’epoca, moto, Porche e Ferrari. Pochi posti al Mondo posseggono “radici” che affondano nella Storia, come la mezzadria qui in Chianti. Pochi credono nell’eccellenza, qui in Chianti

Ma le potenzialità ci sono.

Incognita clima sul mondo vino

L’argomento del Vinitaly 2023 potrebbe essere proprio questo: quanto incideranno le condizioni meteo sui territori italiani, quest’anno?

Chi trarrà vantaggio chi perderà, ma una cosa certa c’è: i fenomeni eccezionali e estremi climatici, ormai purtroppo sempre più sicuri, come vaste aree di siccità o grandine o ventose ecc., condizioneranno le produzioni in modo molto disomogeneo in termini di qualità e di quantità probabilmente in modi assolutamente inaspettati, tanto da sconvolgere quella stabilità che fino ad oggi è stata, più o meno, un modus operandi del mondo del vino.

Speriamo di no, tutto andrà bene anche quest’anno.

Cambiamenti Climatici: cosa sta cambiando in viticoltura e vinificazione

Le opinioni sui provvedimenti per la lotta contro i cambiamenti climatici in viti-vino-coltura sono numerosi.

I miei consigli in proposito:
– ritorno a impianti con un numero di ceppi per ettaro inferiore rispetto a quanto recentemente suggerito da molti agronomi. Questo permette alle viti di avere un portamento più alto con conseguente ombreggiamento dei suoli, una maggior disposizione idrica e meno concorrenza idrica tra viti.
– Ritorno a cloni tardivi. Questo permetterà di vendemmiare nei tempi più equilibrati recuperando maturità che si perde anticipando le vendemmie.
– Ritorno a sistemi di potature che assicurino produzioni un poco più alte per ceppo, in modo da limitare la concentrazione
– Interventi agronomici che migliorino il trattenimento nei suoli dell’umidità e degli eventuali temporali, come basso inerbimento e piccole lavorazioni sulla fila.

Altre considerazioni:
Non credo che l’irrigazione possa risolvere adeguatamente il problema, in quanto se mal effettuata può addirittura, in viticoltura, produrre effetti negativi sulla qualità dell’uva. La pianta infatti “sente” una disarmonia tra condizioni atmosferiche e disponibilità idrica indotta artificialmente. Naturalmente questa considerazione si riferisce non tanto a produzioni intensive, ma ai territori di qualità dove il territorio, appunto, fa la differenza.

Il ricorso in cantina di correzioni come la reidratazione o l’aggiunta massiccia di acidi per ovviare a uve disidratate, ricche di zuccheri, povere di acidità e alti PH può essere valida nelle produzioni intensive ma non, di nuovo, ai territori di qualità.

Infine nel caso specifico del territorio del Chianti Classico, auspico la possibilità di reintrodurre una piccola percentuale di uve bianche come il Trebbiano e la Malvasia, come del resto prevedeva Betino Ricasoli l’inventore di questo vino, per recuperare in modo naturale freschezza e bevibilità.

Asimov sul NY Times: il problema del vino é l’anzianità

Sul New York Times è apparso questo articolo: https://www.nytimes.com/2023/01/26/dining/drinks/american-wine-industry.html sul problema dell’anzianità dei consumatori di vino.

Articolo ripreso recentemente da Intravino: https://www.intravino.com/primo-piano/intrawine-16-vino-per-vecchi-la-cina-e-vicina-nigeria-spagna-bottiglie-di-carta-e-pay-for-play/

Come anziano produttore di vino mi sento di dire che il problema non riguarda solo i consumatori. Guardandosi intorno i problemi di anzianità sono tra i produttori, tra i comunicatori, tra gli operatori. Il problema di anzianità riguarda solo l’Occidente e tutti i settori economici ed esistenziali, riguarda un modello sociale e riguarda una piccola percentuale degli abitanti del Pianeta Terra.

Il ricambio c’è, esiste nel 95% del Mondo, ma gli anziani (come me) tendono a preservarsi, a non lasciare per sentirsi vivi e utili, a volte sacrificando spazi ai giovani.

Ma il problema vero è che i giovani credono che i figli siano una spesa, una fonte di infelicità e di stress, invece di essere un piacere.

Il trattore non è un’automobile

Un mio precedente post parlava della carenza di trattoristi in agricoltura. Sicuramente la carenza di personale per i lavori manuali è sempre più un problema. Ma oggi vorrei rilevare quanto la progettazione di un trattore influenzi l’operatività.

I trattori, sopratutto nelle zone svantaggiate e più difficili, sono quei mezzi che dovrebbero assicurare affidabilità, durata, efficienza e praticità per condurre quegli attrezzi che servono per fare agricoltura.

Però negli ultimi tempi i nuovi trattori assomigliano sempre più a automobili: confort, computerizzazione, automatismi, sistemi elettronici e tanto altre innovazioni tecnologiche MA CHE SI SCONTRANO CON LA REALTA’ DELLE COSE.

I trattori operano in situazioni spesso molto estreme: sassi, declivi, agenti atmosferici difficili, operatività a temperature ambientali elevatissime o bassissime, fango, ricoveri in ambienti esterni, ecc., insomma si rompono. Fino a qualche tempo fa si potevano riparare in campo, con la meccanica. Oggi si devono riparare con i computer. Le tempistiche delle lavorazioni sono essenziali per una buona agricoltura e se le riparazioni devono attendere settimane o mesi perché occorre trovare l’informatico che individui il problema e poi trovare qualcuno che lo possa risolvere, questo è un problema enorme.

C’è chi dice che la tecnologia ci salverà, ma non credo che i trattori ipertecnologici ci salveranno.

Questo è un invito a progettare trattori più pratici, più terra – terra. I trattori non possono essere automobili.

Assicurazione sulla grandine da rivedere

L’Assicurazione sulla grandine, dal punto di vista del vignaiolo, era un valido strumento per diminuire i rischi economici per questa calamità.

Molti anni fa la perizia era affidata a tecnici che in modo spesso generoso, riconoscevano il danno REALE, cioè la perdita di reddito, ma sopratutto la perdita di quella parte di cuore che ogni coltivatore mette nel suo lavoro.

Il 50% del costo della polizza è poi sostenuto da finanziamenti statali alle compagnie di assicurazione. Facile capire che moltissimi vignaioli e imprese vitivinicole si assicuravano.

Ma non oggi: perchè?

Perchè la maggior parte dei vignaioli non produce solo uve da vendere, ma imbottiglia una parte o tutta la produzione, il che significa che i valori delle uve riconosciuti per rifondare il danno si basano su stime mercuriali dell’uva che è molto bassa, anche se alcuni punti di percentuale sono riconosciuti come perdita di qualità, in confronto ai valori aggiunti di chi imbottiglia.

Morale della favola, non conviene stipulare l’assicurazione, perchè le perizie sono ormai diventate solo tecniche ma anche perchè si tratta di un giro di soldi tra consorzi, assicurazioni e anni di attesa per ricevere l’indennizzo. Inoltre la perdita di quantità dovrà essere, chiaramente, riportata sulle denunce di produzione.

La tentazione di non stipulare assicurazione sulla grandine potrebbe poi essere giustificata da un rimpiazzo fraudolento dell’uva o del vino comperato senza tracciatura, sicuramente molto vantaggioso poichè assicura costi ridotti per la piena produzione.

La mia proposta è semplice: Assicurazioni sulla grandine che prendino in considerazione i valori medi del vino imbottigliato dell’operatore danneggiato e non solo dell’uva.

Ma non credo che alle compagnie assicurative piaccia una simile proposta.